Storia del logo

Essendo privo di uno stemma storico, il Comune nel 1963 affidò ad un istituto araldico commerciale di Genova il compito di elaborarne uno apposito: senza ricerche archivistiche degne di nota e dopo una veloce rassegna di notizie prese da fonti enciclopediche, venne composto ex novo un emblema derivato dall’assemblamento di simboli tutt’al più generici e questo ottenne il decreto concessivo il 24 aprile 1965.
Nel 1990 lo storico locale Diego Dalla Gasperina, durante le ricerche in previsione del volume Morazzone – Storia di una Comunità, rinvenne nello Stemmario Archinto (conservato alla Biblioteca Reale di Torino) uno stemma denominato de Morazono e un altro emblema, censito in egual maniera, è presente anche nello Stemmario Cremosano sotto la voce Morazone.
Questo simbolo era portato dalla famiglia Mazzucchelli di Morazzone e, in una variante, fu rappresentato dal pittore Pier Francesco Mazzucchelli all’interno della “Fucina di Vulcano”, un affresco realizzato intorno al 1599 nella sua residenza in paese.
La lettura dello stemma, ritratto in uno scudo sorretto da un putto, è in parte compromessa a causa della caduta dell’intonaco, ma è comunque possibile rilevare alcuni elementi pittorici e araldici che permettono di identificarlo come una brisura dell’insegna proposta dallo Stemmario Archinto.
Il capo include una campitura d’oro che doveva accogliere l’aquila nera (il cosiddetto Capo d’Impero), mentre nella parte inferiore di campo argenteo si vede, sulla sinistra araldica, una testa di moro (generalmente un richiamo ai mori fatti prigionieri ai tempi delle Crociate) che -per posizione, dimensione, composizione simmetrica e soprattutto per la presenza di frammenti di pigmento bruno/ocra- consente di ipotizzare l’esistenza di una seconda testa di moro alla destra araldica.
Lo spazio vuoto nella parte medio-bassa era forse occupato da un terzo simbolo, plausibilmente una terza testa di moro (riprendendo lo schema “2,1”) oppure una stella.
Una curiosità sullo stemma Mazzucchelli riguarda il suo “essere parlante”: infatti, nel dialetto lombardo, il vocabolo mazzùch significa “testone/capoccione” (ossia una persona testarda e dura di comprendonio) e il ritrarre una testa di moro doveva essere un modo (scherzoso) per richiamare il nome della famiglia, talvolta indicato solo dal toponimo de Morazono.
Il Comune sostituì il generico ed incolore stemma degli anni ’60 cominciando ad utilizzare de facto quello scoperto dal Professor Dalla Gasperina finché, nel 2008, affidò all’araldista Marco Foppoli il compito di elaborare un nuovo gonfalone ufficiale.
L’esperto si occupò della realizzazione pratica e dell’adattamento grafico e nello stesso anno, il 30 settembre, il consiglio comunale approvò la proposta di cambio del gonfalone.
Infine, l’11 maggio del 2009, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano mise il sigillo con un decreto che concedeva al Comune l’uso del nuovo stemma, gonfalone e bandiera:
D’argento alla testa di moro, accompagnata in capo da due stelle di rosso (8 punte), al capo d’impero.
Drappo partito di giallo e di nero, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma comunale con l’iscrizione centrata in argento: “Comune di Morazzone”.
Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto nero e oro con bullette argentate poste a spirale.
Nella freccia sarà rappresentato lo stemma del comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta e nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento.

Pier Francesco Mazzucchelli - Il Morazzone

Pier Francesco Mazzucchelli - Il MorazzoneFiglio di Cesare Mazzucchi detto il Tachino e di Ermelina da Fagnano, Pier Francesco nacque a Morazzone presso Varese il 29 luglio 1573.
Si trasferì ancora bambino a Roma con la famiglia[1].Formatosi a Roma nell’ambito di Ventura Salimbeni e accostatosi poi al Cavalier d’Arpino, Morazzone dipinse nella città eterna diver-se opere; perdute quelle in Laterano e nella basilica di San Pietro, restano due affreschi in San Silvestro in Capite (Visitazione e l’Adorazione dei magi).
Pentecoste, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco
Tornato in Lombardia nel 1598, Morazzone eseguì un importante ciclo di affreschi nella cappella del Rosario in San Vittore a Varese. Successivamente è impiegato al Sacro Monte di Varallo per deco-rare tre cappelle: Andata al Calvario, Ecce Homo e Condanna di Cristo e a quello di Varese per la cappella della Flagellazione.
Il 13 novembre 1598 sposò Anna Castiglioni di Morazzone, dalla quale ebbe otto figli; la moglie morì di parto nel 1621.
A Varallo ebbe la possibilità di studiare da vicino l’arte di Gaudenzio Ferrari, il cui influsso costituirà un punto fondamentale del suo stile[2]. In questi anni, dopo aver eseguito un ciclo di tele per la parrocchiale di Arona, collaborò con il milanese Piercamillo Landriani detto il Duchino, un artista che era stato in contatto con l’Accademia della Val di Blenio per l’esecuzione di due “quadroni” del-la serie dei Fatti della vita di San Carlo Borromeo per il Duomo di Milano (1602-1603) e dipinge la tela con la Pentecoste per il soffitto del Tribunale di Provvisione del capoluogo lombardo (poi al Castello Sforzesco di Milano; 1605-1612).
Tra il 1608 e il 1613 il Morazzone fu molto attivo nella città di Como, ove dipinse la pala per la chiesa della Santissima Trinità (ora nella chiesa del Centro Cardinal Ferrari), gli affreschi della volta della sagrestia dei Mansionari nel Duomo, la grande lunetta con “La caduta degli angeli ribelli” per la chiesa di San Giovanni Pedemonte (ora nella pinacoteca civica), le tele in una cappella della chiesa di Sant’Agostino e il Gonfalone della Confraternita del Santissimo Sacramento e di Sant’ Abbondio in Duomo, il cui contratto di commissione venne curato da Giovan Battista Borsieri, da Giovan Pietro Odescalchi e dal Canonico Quintilio Lucini Passa-lacqua[3]. Proprio quest’ultimo, intorno al 1613, richiese la collaborazione del Morazzone per realizzare il suo prezioso scrittoio, custodito al Museo del Castello Sforzesco di Milano[4].
In questo periodo il Morazzone raggiunse una certa notorietà, grazie alla citazione in una poesia di Giovanni Battista Marino che lo definì «immortale, Apelle Insubro»[5]. Nel 1616 decorò la Cappella della Porziuncola al Sacro Monte di Orta e la Cappella di San Carlo Borromeo nella collegiata di Borgomanero, dove è collocata anche una sua pala con San Rocco. All’anno successivo risalgono il San Carlo in Gloria della chiesa di santa Maria della Noce a Inverigo e la Madonna del Rosario per la Certosa di Pavia. Nel 1620 concluse gli affreschi della Cappella della Buona Morte in San Gaudenzio a Novara. Insieme al Cerano e a Giulio Cesare Procaccini firma il famoso Quadro delle tre mani, esposto alla Pinacoteca di Brera.
Negli ultimi anni entrò in contatto con la corte dei Savoia, per cui cominciò un ciclo di affreschi nel castello di Rivoli (terminati poi dall’allievo Isidoro Bianchi) e la tela con la Provincia di Susa, Galleria Sabauda), che avrebbe dovuto far parte di una serie dipinta da pittori milanesi, all’impresa furono coinvolti anche il Cerano e Giulio Cesare Procaccini.
Nel 1626 fu chiamato a Piacenza, nell’ambito del rinnovamento stilistico dell’interno del Duomo (a cui avevano lavorato anche Camillo Procaccini e Ludovico Carracci), per gli affreschi della cupola. La morte gli impedì di portare a termine la commissione, eseguita poi dal Guercino[6].